ACCERTAMENTO Imposta sul reddito

Cass. civ. Sez. V, 17-06-2002, n. 8665

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Michele CANTILLO – Presidente -

Dott. Enrico PAPA – Consigliere -

Dott. Giuseppe FALCONE – Consigliere -

Dott. Stefano BENINI – Consigliere -

Dott. Francesco Antonio GENOVESE – Rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

…- ricorrente -

contro

MINISTERO DELLE FINANZE, …

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 93/99 della Commissione tributaria regionale di BOLZANO, depositata il 08/03/00;

Svolgimento del processo

1) Con atto notarile di vendita e donazione in data 4 aprile 1991, Otto Bachmann e Maria Spechtenhauser trasferivano, in parte, a titolo gratuito e, in parte, a titolo oneroso taluni beni immobili al figlio Rudolf Bachmann, stabilendo un prezzo di compravendita pari a L. 600 milioni che, a tenore dell’atto, sarebbe stato da quest’ultimo regolarmente corrisposto ai dante causa.

Sulla base della segnalazione dell’atto, l’Ufficio delle imposte dirette di Bolzano chiedeva all’acquirente dei beni l’indicazione della fonte dei redditi, atteso che il medesimo non aveva presentato alcuna dichiarazione. Il destinatario della richiesta rispondeva trattarsi di una “eredità” ricevuta.

L’Ufficio delle Imposte dirette di Merano, ritenendo insufficiente la risposta, procedeva ad accertamento sintetico dei redditi, ai sensi dell’art. 38, commi 4, 5 e 6, degli artt. 41 e 41-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, con riferimento ai cinque anni antecedenti l’acquisto, determinando – per gli anni 1987 e 1988 – un reddito di capitali pari a L. 100 milioni annue e notificando due avvisi di accertamento con i quali veniva chiesto il pagamento di 16.200.000 a titolo di Ilor e 34.390.000 per Irpef, con irrogazione di sanzioni per un importo pari al doppio delle imposte evase.

Il Bachmann ricorreva contro gli avvisi di accertamento dinanzi alla commissione tributaria di primo grado di Bolzano, affermando di appartenere a una famiglia diretto-coltivatrice e di non avere propri redditi (nel corso dell’anno 1987, inoltre, aveva svolto il servizio militare). Egli si era limitato ad aderire all’indicazione del notaio, facendo apparire come una vendita, a fini fiscali (per usufruire delle agevolazioni previste dalla legge n. 114 del 1948), quello che era stato, invece, un atto gratuito, di trasferimento del “maso chiuso” familiare, senza corrispondere alcuna somma di danaro a titolo di corrispettivo.

Inoltre, non solo il reddito da capitali sarebbe stato inesistente, e la presunzione vincibile con prova contraria, ma la disposizione applicata (l’art. 38, comma 5, del D.P.R. n. 600 del 1973) era il risultato della modifica operata solo, in un momento successivo all’atto, con la legge n. 413 del 1991.

La commissione adita accoglieva il ricorso, considerando che l’accertamento non aveva tenuto conto della relazione di parentela tra le parti del contratto e del fatto che la legge della Provincia autonoma di Bolzano effettivamente concedeva contributi ed agevolazioni per l’acquisto oneroso della proprietà fondiaria nel sistema altoatesino del “maso chiuso”.

1.1. L’Amministrazione finanziaria appellava la decisione di primo grado, da un lato, perché sarebbe stato rovesciato il valore probatorio dell’atto pubblico di compravendita, da un altro, perché l’art. 38 del D.P.R. n. 600, nella versione applicata dall’Ufficio, avrebbe avuto valore retroattivo. Resisteva il Bachmann, depositando documentazione relativa ai conti correnti dei genitori, dai quali risulterebbe l’assenza di accrediti di somme nel periodo 1990-1991.

La Commissione tributaria di secondo grado accoglieva l’appello dell’Ufficio.

2) Il Bachmann ha proposto ricorso contro la sentenza di secondo grado, facendo valere nove motivi.

2.1. Con il primo, lamenta una violazione e falsa applicazione degli artt. 38 e 41 del D.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 53 della Costituzione.

L’Amministrazione finanziaria avrebbe errato nell’applicazione del metodo sintetico di accertamento del reddito perché lo avrebbe interpretato come un potere astratto, riferibile a ogni (anche minima) anomalia fiscale; mentre esso costituirebbe una “extrema ratio”, azionabile solo quando non sia possibile procedere con un accertamento analitico (Cass. n. 7905 del 1994), e avrebbe ignorato che tale strumento sarebbe, comunque, strettamente collegato con il principio costituzionale della capacità contributiva, ovverosia con la necessità di procedere con il conforto di dati concreti, attinti dalla realtà (Corte Cost. n. 283 del 1987, n. 97 del 1968, n. 92 e 120 del 1972). Nel caso esaminato tali dati concreti sarebbero difettati del tutto, essendo l’accertamento basato solo sul dato formale del contratto di compravendita. La sentenza di appello avrebbe legittimato l’operato dell’ufficio.

2.2. Con il secondo, lamenta una violazione e falsa applicazione dell’art. 38, comma 5, del D.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 2697 cod. civ. e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

La sentenza di secondo grado, che confonderebbe la retroattività dell’azione accertatrice, non in discussione, con l’applicazione retroattiva della presunzione introdotta dalla legge n. 413 del 1991, che ha modificato l’art. 38, comma 5, del D.P.R. n. 600 del 1973, avrebbe ignorato le prove fornite dal ricorrente (la documentazione bancaria) relative all’inesistenza di un trasferimento di danaro, e avrebbero invertito l’onere probatorio spettante all’Ufficio, specie in considerazione dei rapporti di parentela che, per l’art. 26 del D.P.R. n. 131 del 1986, consentirebbero addirittura di presumere la liberalità degli atti onerosi posti in essere tra parenti in linea retta.

2.3. Con il terzo, lamenta una violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. perché il giudice di seconde cure avrebbe omesso di pronunciarsi sulla retroattività dell’art. 38, comma 5, del D.P.R. n. 600 del 1973, che sarebbe norma sostanziale, in quanto consentirebbe di imputare il reddito determinato in via sintetica, in quote costanti, fino a cinque anni precedenti all’anno dell’accertamento.

Al contrario, la decisione, a fronte di tale prospettazione, avrebbe introdotto un tema del tutto nuovo, quello dell’assenza di limiti temporali, ai sensi degli artt. 41 e 41-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, all’azione accertatrice, configurando il vizio di ultrapetizione.

2.4. Con il quarto, lamenta una violazione e falsa applicazione dell’art. 38, commi 4 e 5, del D.P.R. n. 600 del 1973, e dell’art. 11 delle Preleggi.

Attraverso la pretesa mancanza di limiti alla retroattività dell’azione accertatrice dell’Amministrazione, la sentenza avrebbe, surrettiziamente, ritenuto applicabile l’art. 38, comma 5, del D.P.R. n. 600 del 1973, introdotto solo nel 1991 dalla legge n. 413, entrata in vigore il 1 gennaio 1992, in data successiva alla stipula del contratto “de quo”. Tale disposizione avrebbe natura sostanziale, perché norma impositrice, e pertanto, ai sensi dell’art. 11 delle Preleggi, non potrebbe avere efficacia retroattiva, in difetto di espressa previsione di legge.

2.5. Con il quinto, lamenta una violazione e falsa applicazione dell’art. 41 del D.P.R. n. 600 del 1973.

Anche ipotizzando una omessa presentazione della dichiarazione fiscale, l’Amministrazione avrebbe dovuto ricostruire, per quanto possibile, le singole fonti di reddito possedute dal contribuente. Anche il giudice, sulla scia dell’Amministrazione, avrebbe omesso di pronunciarsi su tale mancata indagine.

2.6. Con il sesto, lamenta una violazione e falsa applicazione dell’art. 7, del D.Lgs. n. 546 del 1992, e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Il mancato esercizio dei poteri istruttori attribuiti dall’art. richiamato al giudice tributario, renderebbe la sentenza affetta dal vizio o dal difetto di motivazione. Ritenendo insufficiente o irrilevante la documentazione prodotta dal contribuente avrebbe dovuto esercitare i poteri d’ufficio che la legge consente (accesso, richiesta di dati, informazioni e chiarimenti, consulenza tecnica o ispezione sui conti correnti).

2.7. Con il settimo, lamenta una violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 25 del D.Lgs. n. 472 del 1997.

Il ricorrente non deve la sanzione per infedele dichiarazione dei redditi a fini Ilor, poiché, con l’avvenuta abrogazione delle sanzioni, il legislatore non si sarebbe avvalso anche della potestà di derogare, con norma transitoria, il principio di non ultrattività delle sanzioni abrogate. Anche in questo la sentenza avrebbe errato.

2.8. Con l’ottavo, lamenta una ulteriore violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 25 del D.Lgs. n. 472 del 1997.

In ogni caso, la decisione non avrebbe disposto l’irrogazione delle sanzioni più miti per il contribuente.

2.9. Con il nono, lamenta una violazione e falsa applicazione degli artt. 12 e 25 del D.Lgs. n. 472 del 1997.

La decisione di appello avrebbe altresì errato nel mancato riconoscimento del beneficio della continuazione alle contestate infrazioni di infedele dichiarazione ai fini Irpef ed Ilor. Di qui la necessità di rideterminazione della misura delle medesime, in caso di mancato annullamento della sentenza.

3) Resiste con controricorso l’Amministrazione delle Finanze, rappresentata e difesa dall’avvocatura generale dello Stato, la quale chiede la declaratoria di inammissibilità o infondatezza di tutti i motivi svolti dal ricorrente.

Motivi della decisione

1) Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

I motivi svolti dal ricorrente ai numeri da uno e sei possono essere unificati nella loro disamina, poiché attengono tutti all’accertamento, che si assume scorrettamente compiuto dall’Amministrazione finanziaria, e ai poteri da questa esercitati nel caso concreto, nonché a quelli che avrebbero dovuto essere applicati, nel processo, da parte del giudice tributario.

L’accertamento compiuto dall’Amministrazione si è basato su una dichiarazione del contribuente, contenuta in un atto pubblico di compravendita, rogato da un notaio, dalla quale risultava che egli aveva corrisposto, a titolo di pagamento del prezzo dell’acquisto di un cespite immobiliare (il “maso chiuso” familiare), la somma di lire seicento milioni.

Secondo il ricorrente, l’atto pubblico di compravendita – contrariamente alle apparenze – sarebbe stato un negozio simulato, avendo le parti rivestito la donazione, da loro realmente voluta, con le forme dell’atto oneroso. Di tale simulazione, tuttavia, il contribuente – secondo la decisione di appello – non è stato in grado di fornire prova, non risultando – ad esempio – alcuna controdichiarazione avente data certa anteriore all’accertamento finanziario.

Al contrario, con il secondo motivo di gravame (da cui conviene prendere le mosse in questa trattazione, per la priorità logica della questione in essa affermata), il ricorrente lamenta una violazione e falsa applicazione dell’art. 38, comma 5, del D.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 2697 cod. civ., poiché la sentenza di secondo grado avrebbe ignorato le prove portate dal ricorrente (ossia, la documentazione bancaria) relative all’inesistenza di un trasferimento di danaro, e avrebbe invertito l’onere probatorio, gravante sull’Ufficio.

1.1. Tali considerazioni e ragionamenti non hanno pregio.

L’accertamento dell’Ufficio si è basato su un atto pubblico sottoscritto dal contribuente e contenente una dichiarazione di versamento di una somma di danaro. È da questo dato certo che l’Amministrazione ha preso le mosse per compiere il suo doveroso accertamento, svolto ai sensi dell’art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973, più volte citato, non avendo l’acquirente mai presentato una dichiarazione dei redditi.

Nessuna inversione dell’onere della prova è stata posta a base della decisione di appello, atteso che questa si era correttamente basata sul principio in base al quale, una volta che l’Amministrazione abbia dimostrato, attraverso l’accertamento tributari, l’esistenza di una capacità reddituale giustificante l’acquisto immobiliare era onere del contribuente (Cass. n. 5052 del 1987, n. 2653 del 1995, n. 656 del 1996) dimostrare l’inesistenza di essa ed in particolare della base da cui era stata tratta. Così ha creduto di fare, fin dall’inizio il contribuente, assumendo, nella sua linea difensiva, la simulazione della compravendita su cui l’Ufficio aveva basato il suo accertamento. Tale dimostrazione, nel giudizio intrapreso avverso l’atto di accertamento, ha preso la strada della dichiarazione di simulazione del contratto (un negozio avente contenuto traslativo che il contribuente assume esclusivamente gratuito: una donazione dei genitori, rivestita della forma onerosa per godere dei benefici fiscali previsti dalla legislazione altoatesina solo per il trasferimento oneroso del “maso chiuso”) e della dichiarazione di adempimento del prezzo, svolto senza il contraddittorio con le altre parti del contratto (rilevante secondo una giurisprudenza, ad esempio, perché la sentenza che dichiara la simulazione, tanto assoluta, quanto relativa, di un contratto traslativo di diritti è soggetta ad una nuova imposta di registro, ponendo in essere, ai fini tributari, un ritrasferimento del bene, oggetto del precedente contratto simulato: per tutte Cass. n. 6228 del 1981 e precedenti e successive conformi). Sennonché questa Corte ha, pure, affermato che in materia di accertamento delle imposte sui redditi, la simulazione relativa, inerente al prezzo di vendita di un bene, di cui l’Amministrazione Finanziaria si avvale, ha natura meramente incidentale al fine di accertare gli introiti finanziari che per quel mezzo il contribuente avrebbe realizzato; onde non si richiede né il preventivo contraddittorio con le altre parti di quel contratto, che non vengono coinvolte nell’accertamento, né un preventivo giudizio di simulazione, essendo il controllo giudiziario, come in tutte le situazioni di accertamento tributario, demandato alla fase di impugnazione dell’accertamento (Cassazione n. 8392 del 1993). Tale principio, tuttavia, a ben leggere la motivazione del provvedimento giurisdizionale, riguarda esclusivamente l’accertamento amministrativo compiuto dall’Ufficio, essendosi poi stabilito che “il controllo giudiziario, come in tutte le situazioni di accertamento tributario” è “demandato alla fase di impugnazione dell’accertamento” (Motivi della decisione, esame del VI motivo), ed è qui che si viene a trovare un ampio esame della questione relativa all’accertamento compiuto dall’Amministrazione, che è reso unitariamente, attraverso il coinvolgimento di molteplici fattori economici, di cui uno solo è rappresentato dal dato negoziale simulato.

Nel caso sottoposto a questo Collegio, tuttavia, nessuna doglianza ha svolto l’Amministrazione sul punto specifico dell’azione di simulazione, onde la questione della “proponibilità in astratto” dell’azione contemplata dall’art. 1415 cod. civ., è preclusa in quanto, in tale giudizio, essa ha acquistato “autorità di giudicato interno su tale questione pregiudiziale”, per effetto dell’impugnazione limitata alla pronuncia circa la sua sussistenza (cfr. l’identica situazione processuale accertata dalla Cassazione nella sentenza n. 4328 del 1982, con riferimento ad un caso di azione di simulazione proposta dall’Amministrazione per far valere il minor prezzo in un contratto sottoposto a registrazione). Infatti, l’Amministrazione non ha impugnato la sentenza di primo grado, che tale simulazione aveva incidentalmente affermato sicché, impregiudicata la questione della proponibilità in astratto del mezzo nell’ambito delle controversie tributarie attinenti a contratti che si assumono simulati e delle condizioni per proporle, essa va esaminata nel merito.

1.1.1. La prova, gravante sul contribuente, non è stata fornita, secondo il giudice di secondo grado. La considerazione va condivisa, avendo il ricorrente indicato, a dimostrazione della fondatezza dell’eccezione di simulazione del negozio, la documentazione bancaria relativa ai conti correnti posseduti dal suo dante causa, coloro che avrebbero dovuto incassare il prezzo e che, in realtà, secondo quanto si assume dimostrato dalle scritture di conto corrente bancario, non avrebbero mai ricevuto in accredito la relativa somma.

Invero, in materia di simulazione negoziale, specie con riguardo al pagamento del prezzo, la prova negativa costituita dalla documentazione bancaria è di per sé stessa inidonea a dimostrare la diversa causa negoziale sottostante al tipo formalizzato, atteso che le risultanze degli estratti conto non hanno alcuna attinenza certa e causalmente efficiente rispetto all’adempimento dell’obbligazione del prezzo, nel negozio, simulato come oneroso che si assume celarne uno gratuito, atteso che la provvista necessaria all’adempimento del prezzo può provenire dalle tante altre fonti, e può avere come sua destinazione tanti altri canali, non esauribili né quelle ne questi – in quelli bancari.

1.2. Risulta, da tanto, del pari non fondata la doglianza (sesto motivo di ricorso) relativa al mancato esercizio dei poteri istruttori attribuiti dall’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992 al giudice tributario, in funzione surrogatoria rispetto a quelli non esercitati dall’Amministrazione, poiché, ritenendo insufficiente o irrilevante la documentazione prodotta dal contribuente (la documentazione bancaria) i giudici tributari avrebbero dovuto esercitare i poteri d’ufficio che la legge consente (accesso, richiesta di dati, informazioni e chiarimenti, consulenza tecnica o ispezione sui conti correnti). L’onere della prova contraria a quella fornita dall’Amministrazione gravava sul contribuente che intendeva affermare – in via incidentale – la simulazione del contratto, non sull’Ufficio, né poteva – in mancanza del suo retto esercizio – essere surrogato dal giudice.

1.3. Alla luce delle considerazioni svolte si chiarisce anche l’infondatezza del primo e del quinto motivo di gravame.

L’accertamento compiuto dall’amministrazione ha formato oggetto di specifica, anche se sintetica, motivazione. Essa risulta corretta e, nella parte in cui ha ritenuto legittimo l’operato dell’Amministrazione, immune dai denunciati vizi perbuente si sarebbe proceduto non già sulla base di dati concreti ma solo sul dato formale del contratto di compravendita, atteso che quest’ultimo – o meglio: la dichiarazione di pagamento della somma dovuta ai venditori, contenuta nell’atto pubblico – costituiva la base per l’accertamento di una realtà economica retrostante che non aveva formato oggetto dell’adempimento del dovere elementare di dichiarazione dei redditi negli anni di imposta indicati. Tale realtà, accertata dall’Amministrazione, è stata ritenuta sussistente dal giudice di appello sulla base di un ragionamento che, per quanto sintetico, è immune da vizi e, pertanto, non censurabile in questa sede.

Il carattere sintetico dell’accertamento compiuto rende anche infondata la pretesa lesione dell’art. 41 del D.P.R. n. 600 del 1973, poiché non è necessario che, nell’assolvimento delle sue potestà, l’Amministrazione finanziaria ricostruisca le singole fonti di reddito possedute dal contribuente, essendo sufficiente che mostri, con ragionamento condivisibile (quale è parso essere al giudice dell’appello quello dell’Ufficio), le ragioni che portino a tale conclusione (cosa del resto agevolata, nella specie, in ragione della dichiarazione contenuta nell’atto pubblico circa il pagamento della somma titolo di prezzo).

Ai fini dell’accertamento sintetico dei redditi è sufficiente che vi siano elementi e circostanze di fatto certi che, provando un certo ammontare di spesa, presuppongono la disponibilità di un corrispondente reddito, senza che vi sia la necessità di conoscere i cespiti certi da cui il reddito stesso possa derivare. Quello che occorre è che il reddito globale possa essere tratto da situazioni indicative di una capacità di spesa di natura reddituale (v. Cass. n. 8392 del 1993): nella specie, redditi da capitali.

1.4. Vanno respinti anche il terzo e quarto motivo, con i quali il contribuente lamenta l’applicazione retroattiva dell’art. 38, comma 5, del D.P.R. n. 600 del 1993, introdotto solo nel 1991 dalla legge n. 413, entrata in vigore il 1 gennaio 1992, atteso che tale disposizione ha natura più favorevole per il contribuente poiché ha consentito all’Ufficio di distribuire, in un periodo più largo (cinque anni), il reddito che altrimenti sarebbe stato concentrato in uno solo, con conseguenze certamente meno benevoli per il destinatario dell’accertamento. Questa Corte ha più volte ritenuto applicabile indici e coefficienti presuntivi ai redditi maturati in epoca anteriore all’emanazione dei D.M. del 1992, che li avevano introdotti, stante il carattere procedimentale di questi strumenti normativi, essendo mezzi privi di carattere sostanziale (per tutte: Cass. 15045 del 2000). Ma, anche a voler ritenere norma sostanziale la disposizione applicata retroattivamente, come sostiene il ricorrente, resta il fatto che attraverso la distribuzione del reddito in quote costanti nel quinquennio si è pervenuti ad un accertamento assai più favorevole allo stesso contribuente, ed è dunque pienamente legittimo il suo impiego da parte dell’Amministrazione.

2) Le restanti questioni, esposte nei motivi dal settimo al nono, riguardanti la materia delle sanzioni, può formare oggetto di trattazione unitaria, per l’identità della materia.

Il ricorso, lamenta una violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 12 e 25 del D.Lgs. n. 472 del 1997:

a) non sarebbe dovuta la sanzione per infedele dichiarazione dei redditi a fini Ilor, poiché, con l’avvenuta abrogazione delle sanzioni, il legislatore non si sarebbe avvalso anche della potestà di derogare, con norma transitoria, il principio di non ultrattività delle sanzioni abrogate;

b) la decisione non avrebbe disposto l’irrogazione delle sanzioni più miti per il contribuente che aveva omesso di presentare la dichiarazione;

c) la sentenza avrebbe altresì errato nel mancato riconoscimento del beneficio della continuazione fra le contestate infrazioni di infedele dichiarazione ai fini Irpef ed Ilor.

Orbene, nella specie non si può parlare di applicabilità dell’art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 472 del 1997, poiché non sono venute meno le sanzioni, ma le norme sostanziali alla cui violazione le stesse si riconnettevano. Va da sé che nell’ipotesi, riscontrata dai giudici di secondo grado, di evasione dell’imposta le sanzioni sono logicamente applicabili.

Con riferimento all’entità della sanzione per omessa presentazione della dichiarazione, ha ben ragione l’Avvocatura di osservare che la sanzione comminata (due volte l’imposta dovuta) è inferiore al massimo edittale stabilito dalla nuova previsione sanzionatoria (art. 1 del D.Lgs. n. 471 del 1997) che lo ha fissato nella misura del 240% dell’imposta evasa. Non vi è ragione di esigere, pertanto, l’applicazione retroattiva delle nuove misure sanzionatorie, atteso che il confronto tra le sanzioni (vecchie e nuove) dimostra come quella irrogata sia comunque ricompresa nella forbice legale.

Quanto alla mancata valutazione della continuazione fra le violazioni accertate il motivo, attinente al fatto e alla sua valutazione, è anche del tutto nuovo: non può, perciò, formare oggetto di esame in questa sede, per la prima volta.

3) La complessità delle questioni coinvolte e le opposte soluzioni di merito emerse nei due gradi di giudizio, costituiscono ragioni sufficienti per la compensazione delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della corte di Cassazione, il 30 gennaio 2002.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 17 GIUGNO 2002.

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