ACCERTAMENTO – Ilor
Cass. civ. Sez. V, 17-03-2006, n. 5991
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PAPA Enrico – Presidente
Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – rel. Consigliere
Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere
Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso proposto da:
Ministero dell’economia e delle finanze, in persona del Ministro p.t., ed Agenzia delle entrate, in persona del Direttore p.t., domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende per legge;
- ricorrenti -
contro
C.R.;
- intimata -
avverso la sentenza n. 70/27/2001 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 18.7.2001.
Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 3.2.2006 dal relatore Cons. Dott. Giuseppe Vito Antonio Magno;
Udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PIVETTI Marco che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1.- L’ufficio distrettuale delle imposte dirette di Rieti, avendo determinato sinteticamente e ripartito nell’arco di sei anni, dal 1985 al 1990, il reddito della signora C.R., desumendone la capacità contributiva dal fatto che aveva acquistato in tale periodo beni immobili e quote sociali per somme rilevanti, le notificò avviso di accertamento con richiesta di pagamento, relativamente all’anno 1987, delle somme di L. 6.487.000 per IRPEF e di L. 10.504.000 per ILOR. 2.- Con sentenza n. 28 del 1996, la commissione tributaria di primo grado accolse il ricorso proposto dalla C. contro tale avviso, avendo ritenuto che i beni di cui si tratta, appartenenti a familiari di lei, erano stati acquisiti senza spesa e perciò non costituivano indice di capacità contributiva.
3.- La sentenza fu appellata dall’ufficio, che insistette nel sostenere la legittimità dell’accertamento, giacchè risultava dagli atti d’acquisto che la contribuente aveva pagato, nel periodo 1988 – 1992, la somma complessiva di L. 240.250.000, senza aver denunziato alcun reddito.
Con la sentenza citata in epigrafe, la commissione tributaria regionale accolse parzialmente l’appello erariale, avendo ritenuto che la maggior parte degli acquisti immobiliari effettuati dalla C. dissimulavano donazioni da parte dei suoceri e del marito e, pertanto, non potevano essere considerati indice di capacità contributiva; che, invece, l’esborso di L. 6.000.000, per l’acquisto di quote sociali nel 1988, e quello di L. 155.000.000, per l’acquisto di una casa di villeggiatura nel 1989, dovevano ritenersi realmente effettuati e costituivano, pertanto, indizio valido della produzione di reddito non dichiarato, sufficiente a legittimare, in parte qua, la pretesa fiscale.
4.- Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso l’amministrazione finanziaria dello Stato, con un solo motivo, cui non resiste l’intimata C.R..
Motivi della decisione
5.- Con l’unico motivo di ricorso l’amministrazione ricorrente censura la sentenza impugnata, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 112 c.p.c., oltre che per difetto di motivazione, sostenendo che la parte non aveva mai allegato nè provato la simulazione dei contratti di compravendita immobiliare da cui, stante l’avvenuto pagamento del prezzo, fu desunta la capacità di reddito; che la pretesa simulazione era smentita dai titoli d’acquisto e che l’asserito accordo simulatorio era comunque inopponibile al terzo, e quindi ad essa ricorrente, nè risultava da atto scritto, indispensabile trattandosi d’immobili; che, infine, la commissione regionale non aveva affatto motivato il convincimento che gli atti di compravendita in questione dissimulassero una donazione.
6.- La censura è infondata e, per certi aspetti, inammissibile.
6.1.- L’accertamento sintetico, con metodo induttivo, consentito all’amministrazione finanziaria dalle norme contenute nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, articolo 38, comma 4 e 5, (disposizioni introdotte dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 1), consiste nell’applicazione di presunzioni semplici, in virtù delle quali, com’è risaputo (articolo 2727 c.c.), l’ufficio finanziario è legittimato a risalire da un fatto noto (nel caso di specie, l’esborso di rilevanti somme di denaro per l’acquisto di beni) a quello ignorato (sussistenza di un certo reddito e, quindi, di capacità contributiva).
La suddetta presunzione semplice genera peraltro l’inversione dell’onere della prova, trasferendo al contribuente l’impegno di dimostrare che il dato di fatto sul quale essa si fonda non corrisponde alla realtà (Cass. n. 14778/2000); che cioè, con specifico riferimento al caso concreto, il pagamento del prezzo non sarebbe avvenuto e, quindi, l’effettuata acquisizione di beni non denoterebbe una reale disponibilità economica, suscettibile di valutazione a fini fiscali, poichè il contratto stipulato, in ragione della sua natura simulata, avrebbe una causa gratuita anzichè quella onerosa apparente (Cass. n. 8665/2002).
Il thema decidendum rimane perciò circoscritto alla questione della sufficienza della prova, che il contribuente deve offrire, sul fatto che l’elemento posto dal fisco a base della presunzione di reddito non è invece dimostrativo di capacità contributiva.
6.2.- A questo ragionamento, implicito nella motivazione della sentenza impugnata e conforme a legge, la ricorrente amministrazione oppone, come premesso (par. 5), distinti profili di censura, e precisamente, in ordine logico:
6.2.1.- ultrapetizione, dato che la parte non avrebbe mai allegato la simulazione;
6.2.2.- inopponibilità della simulazione al fisco, terzo rispetto alle parti contraenti una compravendita che si assume relativamente simulata, perchè dissimulante una donazione;
6.2.3.- mancanza di prova della simulazione, contrastata dalla letteralità degli atti d’acquisto, e difetto di forma scritta del contratto dissimulato;
6.2.4.- difetto di motivazione della sentenza impugnata.
6.3.- Il primo profilo di censura (par. 6.2.1) è infondato.
La contribuente aveva, infatti, impugnato l’avviso di accertamento, con ricorso alla commissione tributaria di primo grado, sostenendo che i beni di cui si tratta le erano pervenuti dal marito e dai suoceri senza pagamento di alcun prezzo; che, in altri termini, i contratti di compravendita risultanti dai titoli erano (relativamente) simulati e quindi non idonei a giustificare la presunzione di reddito.
I giudici tributari di merito, accogliendo l’ipotesi della simulazione, non hanno pertanto giudicato oltre i limiti della domanda.
6.4.- Il secondo profilo (par. 6.2.2) è anch’esso infondato.
6.4.1.- Si osserva, in primo luogo, che la contribuente non ha esercitato, col ricorso alla commissione tributaria, un’azione diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità del contratto simulato oppure a far valere gli effetti di quello dissimulato:
azione inammissibile, secondo l’amministrazione ricorrente, nei confronti del terzo (quanto all’inapplicabilità, in caso di simulazione relativa, del limite posto dall’articolo 1415 c.c., comma 1, v. però Cass. n. 7470/1997); bensì ha inteso dimostrare – esercitando il proprio diritto di provare l’inconsistenza del dato presunto (par. 6.1) – l’infondatezza della pretesa fiscale, originata dalla constatazione di una capacità di spesa che la contribuente assume inesistente perchè, a fronte degli atti di compravendita immobiliare stipulati, non avrebbe pagato alcun prezzo.
6.4.2.- Se considerata sotto altro aspetto, la censura risulterebbe inammissibile, essendo ravvisabile, secondo conforme giurisprudenza di questa suprema Corte (Cass. n. 8665/2002, cit.), la formazione del giudicato interno sull’opponibilità al fisco della simulazione relativa, implicitamente affermata dai giudicanti di primo grado (che avevano accolto il ricorso della contribuente fondato sulla simulazione: par. 6.3), la cui decisione non fu specificamente impugnata sul punto.
6.5.- Il terzo profilo (par. 6.2.3) è infondato, relativamente al denunziato difetto di forma del contratto dissimulato, per la ragione esposta al par. 6.4.1 (ovvero è inammissibile, per lo stesso motivo indicato al par. 6.4.2); è inammissibile, del resto, nella parte in cui genericamente sostiene che il mancato pagamento del prezzo (ossia la natura simulatoria delle vendite) sarebbe stato acquisito al giudizio “senza alcuna prova”. 6.6.- Al contrario, la commissione tributaria regionale motiva il convincimento raggiunto in proposito (sicchè è infondato anche l’ultimo profilo di censura, esposto al par. 6.2.4, portante sul preteso difetto di motivazione), annotando che esso deriva dall’esame delle risultanze processuali, indicanti che effettivamente la contribuente era entrata in possesso di beni immobili “acquistandone la proprietà con negozi indiretti nei quali si dissimulavano donazioni”; e che ciò era credibile perchè si trattava “prevalentemente di quote di proprietà di immobili nei quali la contribuente risiede, pervenutele dai suoceri e dal marito”; sicchè “gli acquisti effettuati…non rispecchiavano l’esistenza di fonti autonome di reddito”. 6.7.- Nessuna specifica argomentazione adduce peraltro l’amministrazione, al fine d’inficiare sul piano logico l’affermazione per cui l’odierna intimata avrebbe sufficientemente provato – secondo un giudizio di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non per ragioni d’incoerenza logica, non apparenti nel caso di specie – l’inconsistenza del dato (pagamento di un prezzo per l’acquisto di alcuni beni, quale indice di reddito e di capacità contributiva) sul quale si fonda la presunzione fiscale.
7.- Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato.
Nulla devesi disporre riguardo alle spese di questo giudizio di legittimità, non avendo svolto difese la parte intimata.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile – Tributaria, il 3 febbraio 2006.
Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2006