Io notaio, papà barbiere lui ha investito su di me
di BARBARA ARDÙ
da La Repubblica — 3 marzo 2010 pagina 49 sezione: ECONOMIA

ROMA C’e’ l’ha fatta Fabrizio Cimei a diventare notaio. Eppure tutto congiurava contro. Il padre barbiere, la madre parrucchiera, una bottega a Batteria Nomentana, periferia di Roma. Casa di proprietà, ma con un mutuo sulle spalle: tinello, cucina e due camere, una da dividere con i fratelli. Al liceo, scientifico Plinio, ci andava, ma senza passione. Di lui i professori dicevano quello che dicono a tutti. «Il ragazzo potrebbe farcela, ma si impegna poco». Una frase che in una famiglia di artigiani può significare l’ anticamera del lavoro. Al terzo anno arriva anche la bocciatura. «Ero la pecora nera della famiglia», racconta Cimei dal suo studio, a Lecco. Una moglie, due figlie e un terzo in arrivo, oggi di anni ne ha 46. Non vive da nababbo, ci tiene a precisare, ma certo non deve tirare la cinghia come faceva suo padre. Su uno come lei un broker non avrebbe puntato una lira. Non almeno come notaio, una professione che, si dice, passa di padre in figlio. Come ha fatto? «Ho studiato. Tanto. I miei volevano che i figli si laureassero. Mio padre mi ripeteva sempre “voi siete il mio investimento”. E poi io avevo voglia di riscattarmi dall’ idea che si erano fatti di me durante gli anni del liceo». Ma perché ha scelto di fare proprio il notaio? «Una combinazione. Un amico di famiglia, notaio, aveva assicurato mio padre che mi avrebbe preso come praticante nel suo studio. È nato tutto da quella promessa». È stata dura? «Più l’ università che il resto. A lezione andavo con l’ autobus, ci mettevo due ore. Così seguivo solo i corsi più importanti. Certo avevo poco tempo per me, uscivo una volta alla settimana. Vacanze nemmeno a parlarne, anche perché i soldi, a differenza di molti miei compagni, non li avevo. E dovevo fare in fretta a laurearmi, non potevo perdere tempo: sapevo la fatica che faceva mio padre per tirare avanti. Ogni volta che dovevo comprare un libro ero intimorito. Certo erano altri anni, si facevano più sacrifici. Mi sono laureato con 110. Ma l’ amico di famiglia nel frattempo era morto». Lei però è andato avanti lo stesso. Non s’ è scoraggiato? «No perché il progetto ormai era quello di diventare notaio, non pensai a fare altro. Ebbi la fortuna di fare il praticante con un professionista che mi insegnò molto e mi indicò la scuola giusta per prepararmi al concorso. Così l’ esame l’ ho superato subito, al primo colpo. Cosa rara, c’ è chi lo ripete più volte. In graduatoria sono arrivato 113° su 200 posti. A 33 anni ero già notaio e mi assegnarono la prima sede, Porto Tolle, in provincia di Rovigo. Ho iniziato da lì». Lo sa che lei sballa tutte le statistiche dell’ Ocse secondo cui sarebbero lo stipendio e la laurea del padre, in Italia, a fare il futuro del figlio? «Non posso giudicare nelle altre professioni, ma le garantisco che il concorso per diventare notai è democratico proprio perché molto difficile. È un luogo comune quello secondo cui i notai sono tutti figli di notai, lo sono solo il 13 per cento. Qui a Lecco i maggiori studi hanno dovuto rinunciare a mettere dentroi propri figli proprio perché non hanno passato l’ esame. Certo io ho dovuto fare più fatica di altri e rinunciare a più cose per arrivare, ma ce l’ ho fatta». È uno tra i pochi, lo sa? «Immagino di sì. Ma se vogliano parlare di immobilismo nel passaggio da una classe sociale all’ altra credo che il binocolo vada puntato sul mondo delle imprese, piuttosto che su quello delle professioni. I figli degli imprenditori sono tutti in azienda, è difficile che prendano altre strade. Io come notaio non posso lasciare lo studio ai miei figli a meno che non siano così bravi da superare il concorso. Vale lo stesso se hai un’ attività economica, un negozio, come aveva mio padre». Il negozio di barbiere…L’ hanno preso i suoi fratelli? «No, loro alla fine non si sono laureati. Adesso lavorano con me nello studio. Certo non fanno i notai».
© RIPRODUZIONE RISERVATA – BARBARA ARDÙ

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