di Maurizio Ferraris (da Il Sole 24Ore del 29 marzo 2009)
Supponiamo che a un certo punto scoprissimo che non tutti i cedolini dello stipendio che riceviamo siano esatti, e che qualche volta (diciamo, nel 7% dei casi) siano falsi, cioè non corrispondano alle ore di lavoro effettivamente prestate e al salario pattuito. Immagino che il nostro primo istinto sarebbe di chiedere delle verifiche, ma supponiamo che anche il 7% delle verifiche fossero documenti falsi, e che questa percentuale si estendesse a tutti gli altri documenti con cui abbiamo a che fare: carte di credito, certificati di proprietà, azioni, carte di identità. E’ evidente che diventeremmo a dir poco scettici nei confronti del restante 93% e cadremmo in preda prima allo sconcerto, poi al panico. Un panico che assumerebbe dimensioni globali qualora scoprissimo che il resto del mondo si trova esattamente nelle nostre condizioni.
Come ha sottolineato la stragrande maggioranza degli esperti, questo è ciò che è avvenuto nell’attuale crisi finanziaria. Se cerchiamo di concettualizzarlo filosoficamente, ci rendiamo conto che investe la sfera di quella che ho proposto di chiamare “documentalità”, in quanto caratteristica essenziale degli oggetti sociali. Come ho argomentato estesamente in Dove sei? Ontologia del telefonino (2005), questi oggetti (cose come i soldi, i debiti, i passaporti, le promesse) rispondono alla legge “Oggetto = Atto Iscritto”.
Vale a dire che sono il risultato di atti sociali – tali cioè che coinvolgano almeno due persone – e che devono essere iscritti, su carta, su un file di computer o anche semplicemente (si pensi a transazioni molto semplici o molto segrete) nella testa delle persone. Se il documento non c’è, allora scompare l’oggetto sociale o non sorge mai, ed è per questo che le economie povere di documenti sono anche scarsamente sviluppate. Se viceversa il documento non è garantito, ecco che si fa avanti la crisi.
In una intervista e in un articolo apparsi su “Newsweek”, lo scienziato politico Hernando De Soto, direttore dello Institute for Liberty and Democracy e consulente economico di molti governi, conforta questa ipotesi. La caratteristica centrale della crisi è proprio il fatto che non si sia in grado di quantificare il numero di documenti tossici che circolano nel mondo. Christopher Cox, ex presidente della Securities and Exchange Commission degli Stati Uniti calcola l’ammontare dei titoli tossici a uno o due milioni di dollari, il segretario del tesoro Timothy Geithner dice che sono tre o quattro. In realtà nessuno sa esattamente quanti siano e quali organismi finanziari, banche e assicurazioni, li detengano. Così, tra un banchiere di Manhattan e l’abitante di una favela viene a stabilirsi almeno un punto in comune. Quest’ultimo non ha titoli di proprietà, è un sans papiers; l’altro ne ha, ma, in parte, non sono affidabili, e questa incertezza viene a investire la sfera dei documenti nel loro insieme. Non mi è facile condividere l’idea di De Soto che negli Stati Uniti tutto – tranne i derivati – sia legalmente documentato, se è vero che nel dicembre scorso, a New York, un giornalista del New York Daily News è riuscito a rubare per un giorno, con falsi documenti, l’Empire State Building, e che negli Stati Uniti, dove non esistono i notai, sono circa sessantamila le proprietà che passano di mano grazie a falsa dichiarazioni. Senza considerare poi che, come sostiene il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz in The Three Trillion Dollar War. The true cost of the Iraq conflict (pubblicato con Linda Bilmes nel 2008), un particolare lassismo nei controlli documentali è stato funzionale al finanziamento del debito pubblico per le spese militari americane. Il punto concettualmente importante resta tuttavia il nesso tra crisi finanziaria e crisi documentale.
Sotto il profilo degli interventi e dei rimedi, la parola spetta ovviamente agli economisti e ai politici, che non a caso si orientano sulla trasparenza delle regole di creazione dei documenti, un aspetto su cui si è a giusto titolo molto insistito sul Sole 24 Ore (per restare agli interventi più recenti, Galimberti 24 gennaio, Foglia e Luzzi 19 febbraio, Santamaria 21 febbraio, Bastasin 25 febbraio, Micossi 28 febbraio, Longo 1 marzo). Per il curioso di filosofia resta da riflettere sul fatto che, nel definire la scrittura un pharmakon, un rimedio ma anche un veleno, Platone profetizzava, con argomenti ancora validi, l’invasione di carta tossica con cui devono misurarsi i governanti postmoderni.

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