Il ricordo di un figlio

La solidarietà che ci insegnano i nostri padri vecchi

di Beppe Severgnini  Corriere della Sera 19 marzo 2016

Nelle cascine lombarde c’era una sedia più bassa, vicino al fuoco, per il più anziano della famiglia: era un modo per dirgli che contava ancora, e qualcuno sarebbe venuto dopo di lui, e si sarebbe seduto lì

E’ la mia prima festa del papà senza papà. Mi è successo a cinquantanove anni, e mi considero fortunato. Mio padre Angelo, classe 1917, se n’è andato domenica scorsa. Ho trovato sul suo tavolo rotondo davanti al televisore alcune pagine del Corriere, con i miei articoli annotati e — come sempre — il voto. Ultimamente era diventato magnanimo, ma negli anni ho preso le mie insufficienze.

Sono giornate formidabili, quando se ne va un genitore. Terribili, ma formidabili. La vita ti spiega come funziona: tu devi solo abbassare la testa e ascoltare. Un vecchissimo papà ha lasciato a me, ai miei fratelli e ai nostri figli una lezione che lui amava riassumere in una parola: solidarietà! Col punto esclamativo, ovviamente.

La parola gli piaceva molto. L’abbiamo trovata incollata sulla scrivania notarile, la stessa, occupata dal 1943: settantatré anni. Solidarietà! Vogliatevi bene, aiutatevi a vicenda, distribuite le cose secondo necessità, ascoltando il cuore e non il codice. Il testamento è solo una guida. Papà ripeteva a chiunque volesse ascoltare (anche a tutti gli altri, a dire il vero): «Chi aspetta di fare il testamento perfetto non farà testamento!». E lascerà dietro di sé incertezza e confusione.

Il notaio Severgnini aveva una concezione paternalistica del mestiere: ecco perché è bello scriverne nel giorno in cui i papà vengono festeggiati. Sosteneva che i redditi di un notaio sono giustificati solo se riescono a evitare incomprensione nelle famiglie, se le portano a prendere le decisione giuste, se le liberano dall’ansia. Altrimenti, la figura del notaio diventa inutile: e non durerà.

Diversi agricoltori cremaschi — siamo una famiglia di terra e di pianura — mi hanno raccontato, in questi giorni, cosa succedeva quando andavano da papà per fare testamento (ne aveva in deposito oltre quattromila, distribuiti due anni fa tra i colleghi del distretto). Il notaio Severgnini chiedeva che venissero con la moglie, li faceva sedere e poi diceva, in dialetto: «Raccontatemi della vostra famiglia, non abbiamo fretta. Perché, se non vi conosco, come posso consigliarvi?». Le successioni curate da lui, guarda caso, filavano lisce. «In tribunale per questioni di eredità? Cinque clienti in tutta la carriera!», raccontava orgoglioso.

Non va così, purtroppo, in Italia. Molte famiglie — sempre di più — sono squassate da litigi e incomprensioni per questioni ereditarie: ognuno di noi ne conosce, e si dispiace. Certo: ogni caso è diverso, le circostanze cambiano, le spiegazioni abbondano. «Le mogli dei figli maschi sono fondamentali», sosteneva papà. «Dalle cognate dipende l’armonia delle famiglie». E quando lo accusavo di generalizzare, si scocciava. «Non è un mia opinione, è una mia statistica», sbottava.

C’è qualcosa di inquietante nel modo in cui tanti italiani scelgono di convivere con l’amarezza. Gente con molti soldi, gente con meno soldi, gente senza soldi: l’incomprensione non è una questione finanziaria, e aumenta. L’ostilità, la rigidità e l’aggressività sono diventate il marchio di molte famiglie. Ognuno convinto d’aver ragione, nessuno disposto a fare il primo passo: «Basta, che senso ha? I nostri genitori ci hanno lasciato immobili e risparmi perché vivessimo meglio, non perché ci scannassimo tra noi».

Chissà, forse manca un padre, o qualcuno che possa sostituirlo. Qualcuno che si assuma il compito di impedire i conflitti o di risolverli. I libri e i film sull’assenza del padre si moltiplicano: da Knausgård a Moehringer, da Scurati a Siti, da Virzì a Verdone. Ma quasi sempre parlano di padri distratti, padri in fuga, padri in libera uscita, padri giovani o che s’illudono d’esserlo ancora. Ma ci sono anche gli altri. I padri vecchi e fragili che non lasciano per distrazione, ma per età. E, quando se ne vanno, lasciano un vuoto.

C’è un pater familias che va oltre la biologia e il diritto privato. La paternità è un programma, «forse il primo programma», spiega lo psicoanalista Luigi Zoja ne Il gesto di Ettore. La paternità si sceglie, e non ha età. C’è sempre un modo di rendersi utili. Nelle cascine lombarde c’era una sedia più bassa, vicino al fuoco, per il più anziano della famiglia: era un modo per dirgli che contava ancora, e qualcuno sarebbe venuto dopo di lui, e si sarebbe seduto lì.

La seggiolina — l’ho provata — non è comoda. Forse per quello, oggi, molti rifiutano d’occuparla. Ma poi è un guaio: le famiglie si girano in cerca di uno sguardo o di un consiglio, e non vedono nessuno. Mio padre Angelo, invece, quella sedia l’ha occupata con passione fino alla fine. Quando qualcuno passava di lì, ripeteva: solidarietà! Ora che ci penso: chissà che voto prenderebbe quest’articolo. Non lo saprò mai.

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